Già il carbone... questa cosa nera, sporca, strana, che brucia.
Oggi questa "cosa" te la vendono carissima nei sacchetti di carta per fare il "barbecue" sul terrazzo o in giardino, e questo è l'unico "ricordo" che i giovani d'oggi avranno del carbone .
I nostri bisnonni ci cucinavano il pranzo ed i nostri nonni ci scaldavano la casa (quelli che potevano permettersi il lusso di bruciarlo nella stufa).
Dal carbone estraevano il gas che illuminava le strade, e solo il carbone ha permesso l'inizio della "era industriale" , l'era delle "macchine".
L'estrazione ed il trasporto del carbone hanno dato origine alle fortune economiche di molte imprese, nutrito molte famiglie, causato molte tragedie, morti, vedove e orfani. Al carbone ed ai suoi derivati erano legate molte attività, molti mestieri, molte storie, molte vite.
Ma il carbone sporca, inquina, e nella nostra era "post industriale" vogliamo solo cose sane, pulite, ecologicamente compatibili e quindi... (ipocritamente non vogliamo sapere che proprio noi siamo la cosa meno eco-compatibile che esista, ma questo è un altro discorso).
Quindi... quindi oggi vorrei ricordare il rapporto tra Genova ed il carbone parlando del lavoro di chi il carbone lo sbarcava nel porto della città.
Per inciso, questo post è scritto al singolare perchè parzialmente "autobibliografico" e Loredana stavolta si limiterà a correggrmi l'ortografia. (ho il vizio di digitare a casaccio).
A Genova non abbiamo miniere di carbone, quindi ce lo portavano via mare fin dal tempo in cui nemmeno le navi lo usavano perchè andavano a vela. Il punto di "rifornimento" più comodo ed economico era allora l'Inghilterra. Il carbone all'epoca veniva usato per cucinare, scaldarsi (poco), ma sopratutto per la fusione e la lavorazione dei metalli.
Venivano usati in genere velieri di media taglia, brigantini o simili ed il carbone veniva spalato a mano nelle coffe di vimini che i facchini trasportavano a spalla camminando su precarie passerelle.
Molta manodopera veniva impiegata in questo pesante ed insalubre lavoro.
Foto dal web non catalogata |
La pesatura della "coffa" |
Le "passerelle" |
Questo sistema di sbarco piuttosto "primitivo" continuò ad essere in uso ancora a lungo, forse per la scarsità di accosti sotto le "benne" e forse anche per l'econimicità della mano d'opera. La foto di prima è datata 1932, mentre quella che segue è del 1936 anni in cui erano già in funzione i "moderni" elevatori elettrici che mostreremo più avanti un questo post. La parte terminale di un elevatore occhieggia nell'angolo sinistro in alto già nella foto che segue, il che vuol dire che la nave sbarcava contemporaneamente sia con l'elevatore che con i sistemi tradizionali .
sbarco "tradizionale" del carbone nel 1936 da "Il Porto Frainteso" di Macciò e Migliorino ed.Costa&Nolan |
Spesso, a causa dello scarso spazio disponibile in banchina, lo sbarco dalla nave avveniva sulle chiatte dalle quali poi il carbone veniva successivamente pesato e trasferito nei mezzi che lo avrebbero portato a destinazione.
coffinanti scaricano carbone da chiatta - tela di G.B.Costa - da "porto di Genova" Sagep editore |
Carbonin a calata San Benigno - ricarico da chiatta a vagone |
Dalla metà del 1800 lo sbarco del carbone aumentò progressivamente ed in maniera impressionante a causa della rapida industrializzazione del Nord Italia e dell'implementazione della illuminazione a gas (in quanto il gas era ricavato dal carbone). Necessitavano quindi maggiori accosti dedicati al carbone e nuovi e potenti mezzi per lo sbarco: gli elevatori elettrici.
Già nei primi anni del 1900 erano disponibili a Genova a Ponte Assereto nuovi elevatori con benna della portata di 2 ton ed una "resa" di 36 ton/ora dedicati allo sbarco del carbone. Li vediamo in questa foto.
Nonostante la costruzione di sempre nuovi moli, lo spazio a terra non bastava mai, e le navi andavano di fretta, cosicchè si arrivava a sbarcare contemporaneamente via terra e via mare (su chiatta) come vediamo nella foto che segue:
Con l'entrata in servizio delle navi a vapore, il carbone veniva sbarcato su chiatta anche per rifornire le navi del carbone necessario per il viaggio. Specie i grandi transatlantici ne consumavano grandi quantità e dovevano fare "il pieno" in quasi tutti i porti di scalo.
Qui due "navi bianche" ormaggiate al ponte Andrea Doria fanno provvista di carbone da chiatta. Questa operazione di rifornimento era definita in gergo "carbonamento".
A volte il rifornimento di carbone ai transatlantici non era affatto agevole e, per gli addetti al rifornimento, l'operazione si rivelava più gravosa ancora di quando l'avevano sbarcato, come vediamo nella foto che segue, databile ad inizio 1900. Qui i "boccaporti di carico" sono situati in alto e vediamo una serie di "catene umane" che, arrampicate su scalette poco sicure, fanno il passamano delle coffe di carbone dalle chiatte alla nave.
Ed ora parliamo della parte autobiografica (veramente non "parliamo": io ne scrivo, voi leggete... ma un "parliamo" mi paceva mettercelo). Quindi "parliamo" del lavoro dei "carbonin" come li chiamavano un tempo a Genova o carbonè come li chiama il loro attuale console.
Uomini fieri, abituati alla fatica con cui si guadagnavano il loro magro salario lavorando in condizioni igienico-ambientali proibitive. Condizioni igienico-ambientali che non sono migliorate molto anche dopo la meccanizzazione delle operazioni di sbarco, come ho potuto constatare "grazie" al mio lavoro sulle navi e nel porto.
A questo proposito vorrei proporre il racconto del mio primo incontro col mondo dei carbonin, non quelli genovesi ma quelli di un altro porto italiano.
Avevo solo 5 anni ma quei ricordi non si cancelleranno mai. Avevo raggiunto con la mamma mio padre che era arrivato da Norfolk con un liberty carico a tappo di carbone. Sbarcavano con la benna a ganasce, ma i "corridoi" dovevano venire spalati a mano. Ai miei occhi innocenti si apriva un inferno ("dantesco" non potevo ancora dire per mancanza di dati... ma dell'inferno qualcosa mi avevano già anticipato per mettermi in riga: se fai capricci... ).
Un inferno in terra davvero: la benna piombava rapida nella stiva con un rumore tremendo di ferraglia ed il colpo faceva rimbombare e sussultare il ponte di coperta.
Le ganasce si serravano lentamente con un altro verso orribile e la benna si sollevava lasciando cadere una nuvola di polvere nera che oscurava il sole, si disperdeva nell'aria e ti entrava nei polmoni, nelle orecchie, dappertutto.
Nel frattempo, una decina di uomini, neri, nudi dalla cintola un su, con un fazzolettone in testa, (che lasciava raramente intravedere il suo colore originale), spalavano con una lena rabbiosa il carbone giù nella stiva. Agli occhi di un bimbo erano diavoli o peggio... erano dannati dell'inferno.. Tanto più che cadenzavano le palate con una nenia che pian piano cominciavo a capire: ad ogni palata, una bestemmia. Proprio cosi: palata e bestemmia, palata e bestemmia, palata... ogni volta una una bestemmia diversa e capivo sempre meglio: era una filastrocca blasfema (a cinque anni ero un esperto di filastrocche, ma non ne avevo mai sentita una così). Poi la filastrocca si ripeteva, si ripeteva all'infinito...
Il sudore creava rivoli bianchi su quei petti scuri, sulle schiene curve e le spalle poderose. Rivoli subito coperti da altra polvere ed altri rivoli nascevano e subito sparivano formando disegni indecifrabili.
Rumori di macchine e di parole, polvere, sudore. Stupito, affascinato, intimorito, osservavo quel mondo nuovo inconsapevole che fra non molti anni tutto ciò avrebbe fatto parte del mio lavoro, della mia vita.
Venne la sera, andati via i portuali, i marinai "guarnirono" le stive con i "cagnari" (quella notte non si lavorava) e poi iniziarono a fare il "lavaggio dei ponti" così i corrimano delle scalette tornarono bianchi, gli idranti ridivennero rossi ed i ponti bagnati sembrarono prati verdi luccicanti di rugiada. L'inferno, almeno per quella notte, era tornato nel profondo del caos. Nel buio della notte, illuminata dai fanali di bordo, mi sembrò quasi che fosse tornato il sole...
Vi ho raccontato l'impressione di un bambino di 5 anni. "Impressione" nel vero senso della parola in quanto impressa indelebilmente nella memoria. Impressione che ho in seguito rielaborato, compreso, reinterpretato e non mi ha causato condizionamenti di sorta quando ho rivissuto, tra i 18 ad i 30 anni, simili scene in ambienti forse anche peggiori.
Ora comprenderete perchè questo post ho voluto scriverlo da solo.